Lo sento
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Lo sento.
Non c’è che dire. Sembra che il modo migliore di vivere liberi sia questo dormiveglia. Come presi da ebbrezza. Nessuno di noi potrebbe dire di avere le idee chiarissime. Ma sa che se le avesse chiarissime sarebbe un dipendente dell’organizzazione. Sarebbe lì ad interrogarsi su mansioni e doveri. E brontolerebbe perché il programma non è stato rispettato.
Le cose erano cresciute molto da quando avevamo dato inizio all’avventura. Erano giunte nuove persone attratte dall’idea o dallo spirito. Ognuna aveva le sue proposte, i suoi sogni. Quello che all’inizio era stato un sogno singolo ora era diventato un giardino di sogni.
E le vecchie abitudini ci spingevano ad organizzare, controllare, irreggimentare. Ma non appena queste parole riecheggiavano nella nostra mente, sentivamo il sapore di chiodi arrugginiti in bocca. Non era questo quel che sognavamo.
Insomma, ci trovammo a dover fare i conti col management.
Se per esempio, entravamo nell’ordine d’idee di aumentare le vendite, ci concentravamo su certi obiettivi semestrali e stilavamo un piano operativo. Poi diventavamo servi di questo piano e la vita – il gusto del presente – ci sfuggiva di mano come sabbia tra le dita. E sapevamo benissimo che di questa perdita non ci avrebbe compensato per niente il raggiungimento dell’obiettivo tra sei mesi.
Noi eravamo entrati nel mercato perché si devono pagare le bollette e al supermercato si doveva passare alla cassa. Ma la nostra impresa non era finalizzata a fare quattrini … e a pagare le bollette, i conti all’albergo, le vacanze e tutto quello che c’è da pagare. Noi volevamo vivere pienamente, esprimere quello che avevamo dentro e, naturalmente, trovare tutte le risorse che ci avrebbero permesso di continuare a vivere in quel modo. Noi eravamo entrati nel mercato perché avevamo un corpo e si deve entrare nel mercato. Ma la nostra vita, il nostro gusto per la vita non era vivere per il mercato, avere successo sul mercato, continuare a fare i conti e misurarci su quell’ultima riga a destra della pagina della contabilità.
Avevamo una grande ammirazione per quel che le donne avevano espresso negli ultimi decenni. Volevamo che questa vita di lavoro fosse ispirata alla sensibilità delle donne. Le donne ci avevano fatto sapere che i risultati da soli non pagano. La vita è tutti i giorni, la vita è adesso. E il piacere di vivere o lo senti adesso o non te lo darà per niente il raggiungimento degli obiettivi semestrali. Il processo – dicevano le donne intelligenti – è importante quanto il risultato, se non di più. Perché il processo è come vivi oggi.
Avevamo imparato a considerare le donne molto al di là del sesso. O meglio, il loro sesso era diventato qualcosa di più delle tette e degli organi genitali. Eravamo riusciti a vedere nel sesso delle donne una dimensione della sensibilità e dell’intelligenza. Proprio quella che ci mancava e di cui sentivamo disperatamente la necessità.
Se si doveva fare un’impresa, volevamo un’impresa al femminile. Che attraversasse il mercato, come una carovana attraversa il deserto, o una nave l’oceano. Ma capace di guardare la luna e i tramonti, e di godere, estasiata, del cielo notturno. Volevamo comunicare agli altri le nostre emozioni, e parlare eccitati di quello che sentivamo. Volevamo tenere per mano chi oscillava, chi stentava nel cammino. Volevamo danzare di gioia con tutti quelli che sentivano la musica scuotere il cuore.
E allora, l’idea del controllo e della programmazione mutò volto. Preferivamo programmare per entrata casuale. Vale a dire, accogliere gli eventi inaspettati come segnali che avevano il potere di farci cambiare rotta, e