Una mente nuova
Guarini Newsletter
Una mente nuova.
– E l’avevamo capito, finalmente. Cioè, ci eravamo arrivati. Perché si tratta di questo: di arrivarci. Non di una semplice conquista intellettuale. Ci eravamo trasformati. Si poteva dire, anche, che eravamo cresciuti fino a quel punto, da capire.
Gardner parlava con le solite impennante delle sopracciglia. Era il suo modo di sottolineare che ci stava dentro quelle parole. Ci stava proprio giusto. Aveva i piedi grossi, Gardner, e le gambe un po’ esili. Ma le spalle erano larghe e la faccia espressiva: si agganciava come in una danza empatica alle cose che diceva.
– Che non era più il tempo di appoggiarci a qualcuno. Non era più il tempo di dire Tizio ha detto che… o come sostiene Pinco Pallino … Era venuto il momento in cui ognuno di noi diceva le cose come le sentiva e le vedeva lui. E si assumeva in proprio la responsabilità delle sue ipotesi e delle sue analisi.
Avevamo imparato, finalmente, a pensare con la nostra testa, liberi da tutte le pressioni, da tutte quelle credenze che avevamo assunto per mancanza di forza e di fiducia. Ora – nel momento stesso in cui sapevamo di non sapere nulla di certo e di assoluto – comprendevamo di avere tutto quel che bastava per tracciare la nostra strada.
E cominciammo a comunicare molto meglio, tra di noi. Perché ognuno entrava in contatto con quello che gli altri sentivano davvero, e non con teorie o dottrine di cui faceva un po’ da registratore. E ci sostenevamo in questo modo, perché comunicare era danzare la stessa musica, bagnarci nello stesso fiume, respirare la stessa aria.
E la smettemmo anche di farci le bucce l’un l’altro. Sapevamo che l’intelligenza non consisteva nello sviluppo della critica reciproca e che non esisteva una cosa come la critica costruttiva. Volevamo star bene piuttosto che aver ragione. E sostituimmo la critica costruttiva all’invenzione di idee che potevano risolvere, o promettere orizzonti più aperti.
E ci addestrammo nell’arte di fiutare un discorso, di sentire ai suoi inizi dove sarebbe andato a parare e dove ci avrebbe portato. E sapevamo sentire il gusto di questo esito, immaginandolo in anticipo. E scartavamo le strade che sapevano di pantano o di rabbia o di morte, o anche solo di grigiore, mentre seguivamo il richiamo dell’erba bambina, del sorriso della vita fanciulla, della freschezza del canto, della bellezza dei colori.
E intuimmo che non c’era distanza tra l’arte che produce forme belle sui quadri e l’arte del vivere. Che la bellezza era il segno distintivo delle idee vive, e delle azioni feconde. E non volevamo neanche più romperci i coglioni con tutto quel cavillare. Noi inventavamo seguendo il richiamo della bellezza. Tutto qui.
Insomma, i criteri per il valore delle nostre cose, l’avevamo addosso. Lo sentivamo dentro. Non c’era bisogno di nessun decalogo, di nessuna convalida. E fecondavamo la vita con atti di vita.
Lo sapevamo. All’inizio sembra che rischi tutto. Che vai incontro alla morte, o a qualche sua sorella. Ma, mentre sceglievamo la morte e la perdita e il fallimento – come esito possibile -, noi sceglievamo la vita, e il successo, e la riuscita.
Sapevamo che la vita reale, guardata con occhi innocenti, riservava questi colpi di scena. E ci fidavamo. In sostanza, avevamo imparato a seguire.
Imparavamo ad essere contenti di quello che c’era, e di come eravamo, ma, allo stesso tempo, non immobili, non soddisfatti. Volevamo il meglio, per noi e per tutti. E se c’era qualche figlio di puttana, non ci perdevamo a discutere… L’avrebbe capita da solo, prima o