Andrò fino in fondo
Guarini Newsletter
Andrò fino in fondo.
A quei tempi, ciò che importava era la realizzazione di sé, soprattutto nella vita economica, e anche nelle attività espressive.
Molti desideravano occuparsi di comunicazione, perché è questo il territorio degli scambi tra persone. E molti pensavano che diventando degli abili comunicatori avrebbero avuto il dovuto successo in società.
La comunicazione non era più quello che avveniva tra persone che vivevano in qualche modo vicine, ma era diventata un territorio economico, uno spazio di realizzazione di sé, una sorta di show sul palcoscenico vasto del mondo.
La comunicazione, oltre ad essere un territorio di caccia, prometteva anche di fornire quella dose quotidiana di stimolazioni che può rendere la vita un po’ più eccitante. La sensualità è sempre presente nella comunicazione, ma anche la rabbia, e l’invidia, e la competizione. E questi sentimenti sottraevano dalla piattezza e dal grigiore di una vita da travet.
Per lo più, la comunicazione, allora, voleva dire l’arte di affascinare e condurre un altro fino al punto di ottenere da lui quello che avevi deciso di ottenere – o che ti era stato dato come compito di ottenere.
Erano nate facoltà universitarie sulla comunicazione, e intere correnti di pensiero psicologico umanistico prodigavano generosamente le loro intuizioni in materia. Si pubblicavano libri – molti manuali – e si tenevano master e corsi e training.
La comunicazione era diventato un campo specifico, autonomo. Autonomo perfino da ciò che si doveva comunicare. Una vera professione. Si poteva comunicare qualsiasi cosa e non era importante la persona nel suo vissuto, bastava che sapesse le tecniche e le strategie e sapesse recitarle alla perfezione.
Fiorivano dappertutto gli “eventi”. Il mondo e la vita pubblica erano diventati una kermesse di eventi. Tutti volevano fare eventi, e più eventi c’erano, più ne nascevano, e meno sembravano eventi.
Tutto era comunicazione. Come vestivi, come mangiavi, come camminavi e gesticolavi e anche dove e come ti sedevi. Tutti erano interessati a decifrare il linguaggio del corpo. Tutti erano protesi nel rispetto di una sorta di galateo del comportamento corporeo. Erano tempi saturi dell’idea di comunicazione.
Ah, dimenticavo, mi chiamo Anna. Da giovane dipingevo, su commissione. Facevo trompe l’oeil su richiesta del committente. Ora ho impegni di maggiore responsabilità.
Da ragazzina sognavo di fare l’artista. Mi piaceva l’idea di esprimere liberamente le mie emozioni e il mio sguardo sulla vita.
Poi ho incontrato la vita reale. La vita reale è quando devi provvedere ai pagamenti. Una casa costa, i vestiti costano. Il tuo tempo libero costa. Tutto costa. E se costa devi avere i soldi. E per avere i soldi devi “lavorare”. e se devi “lavorare” bisogna che tu… Ora non mi viene l’espressione giusta, ma sento che c’è una certa necessità di rinunciare ai sogni, alle fantasie… Oppure di trovare il modo di rendere questi sogni e queste fantasie… come dire? … commercializzabili.
A quei tempi era il regno della comunicazione. Senza che si ponesse troppo direttamente la domanda sul significato e sul valore di quello che comunicavi. La comunicazione era diventata un’arte autonoma. Si era, per così dire, separata dal resto e aveva assunto lo statuto di una disciplina autonoma.
Uno poteva – insomma – diventare un abile comunicatore senza aver niente di proprio da dire.
Me ne ricordo bene.
Dimenticavo… mi chiamo Anna e ora ho dei compiti importanti. Da ragazzina sognavo di fare l’artista. Poi, verso i vent’anni dipingevo trompe l’oeil su commissione.
Ho camminato nel mondo. Si sa, si potrebbe fare diversamente? E oggi ho un posto di responsabilità…
E poi successe qualcosa.
Sì, doveva essere