Allah Akbar
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Allah Akbar
Lucia è egiziana. Ha fatto la hostess per un certo numero di anni, accompagnando viaggiatori in tutto il mondo. Un giorno, a Cervinia, si è innamorata di Benedetto, valdostano, ed è rimasta con lui. Hanno una bellissima figlia e gestiscono una pizzeria.
In quella pizzeria, cenando in compagnia di Danilo, maestro di sci, l’ho conosciuta. Una gran voglia di parlare. Un’intelligenza brillante. Una mente aperta. Una comunicativa calorosa, levantina.
Le chiedevo di spiegarmi alcune cose della sua religione. In particolare l’espressione Allah Akbar, che letteralmente significa Dio è grande. Non ho mai sentito una spiegazione più bella e suggestiva.
Lucia si avvicina, spalanca quei due occhi scuri e profondi, allarga i palmi delle mani. Vedi – dice – quando tu ti trovi a contemplare un tramonto straordinario nel deserto, una di quelle scene che ti rapiscono completamente e tu rimani attonito… Oppure quando tu vedi una bellissima donna, la cui bellezza è così fantastica che ti manca la parola… in queste circostanze il credente dice: Allah Akbar, Dio è Grande!
Ho masticato per lunghi anni e in tutte le salse ciò che è stato detto a proposito di Dio, in Oriente e in Occidente. Ho fatto per 25 anni l’insegnante di Filosofia nei Licei e voi sapete che il concetto di Dio è una strada obbligata per tutti gli itinerari filosofici. Non ho mai trovato niente che mi penetrasse dentro in maniera più efficace del discorso di Lucia.
Quel discorso ha l’effetto di liberarmi di botto da tutte le pastoie dei ragionamenti, delle obiezioni, delle controdeduzioni, della dialettica – e dal senso di inadeguatezza che ne risulta.
Quel discorso mi riconduce al vissuto, a qualcosa che avviene da sé, a qualcosa che conosco direttamente: il momento del punto interrogativo. Quando appare la bellezza sconcertante, quando appare l’impossibile, quando avviene qualcosa che hai sempre atteso ma che risultava incredibile, allora ti si spegne la parola in bocca e riesci solo ad esclamare: Dio!
A volte non dici: Dio!, a volte dici: Cazzo!, Wow!, Impossibile!
Fa nulla. È indifferente. Non conta la parola. Quello che conta è quell’esperienza attonita, sorprendente, stracolma, incontenibile, travalicante…
Ecco. Questo è – per me – il momento teologico per eccellenza. Il momento in cui avviene il discorso su Dio.
E, come vedete, c’è poco da dire, c’è poco da ragionare. Non viene neanche da dire, o da ragionare. Detto: Dio!, non hai parole. Rimani a bocca aperta.
È ovvio che preferisco il “Dio!” di esaltazione, in cui senti che la vita ti ha benedetto, e che sei stracolmo di grazia.
Ma, a pensarci bene, è una situazione analoga a quella che avviene quando vieni a sapere dello Tzunami, del terremoto, degli eccidi, o della morte di qualcuno.
Quando andiamo al funerale della madre di un amico, ci diamo tutti da fare per reggere la situazione. Prepariamo il caffè, facciamo domande per avere notizie di tizio caio e sempronio, cerchiamo anche frasi per consolare, per alleggerire, per sostenere… ma dentro sentiamo che ci manca la parola, che in realtà non sappiamo che cosa dire. In realtà vorremmo essere liberati dalla necessità di dire qualcosa, vorremmo poter spalancare la bocca e limitarci ad esclamare: Dio!
E non so se l’avete notato: anche in questi momenti culmine della sospensione attonita, questi momenti dal cuore gonfio, del rapimento estatico o del terrificante senso di precarietà, anche in questi momenti… Dio tace.
Tace, nel senso che non telefona, non ci manda una lettera di suo pugno, non