Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia
(Nosos, in greco: Malattia. Da cui Nosolandia: la Terra della Malattia)
Sono stato ricoverato in Ospedale, a Ivrea. Le gambe non funzionano. Probabilmente è l’effetto secondario della lunga chemioterapia per debellare un linfoma.
1
Qui ci si rende conto che siamo fragili e che lo siamo anche quando stiamo bene e ci sentiamo leoni. E qui comprendiamo meglio che piccole cose, una parola, un gesto, una gentilezza, qui, nel luogo della malattia e del dolore, hanno un grande valore. E credo che questo lo porterò con me, una volta guarito.
2
Col tempo, e le varie vicende occorse, la direzione di marcia contenuta nel nucleo desiderante di me stesso sembra chiarirsi e semplificarsi.
So che ho sempre desiderato buona salute, tanta energia e un atteggiamento positivo nei confronti della vita.
Una casa atelier che ispiri e agevoli creatività di pensiero e di azione.
Libri e suggestioni che abbiano questa funzione.
Relazioni che nutrano un approccio gioiosamente operoso all’esistenza.
Nell’insieme credo di aver avuto fortuna fino a questo momento.
Il tempo, e le vicende, mi hanno anche aiutato a conoscermi meglio.
Ho capito ciò che non sono tagliato a fare.
Nel tempo ho imparato a dedicarmi a ciò che amo fare e che mi riesce bene, accettando i miei limiti per tutto il resto.
Per esempio, ho imparato che non sono un eroe titanico, un grande guerriero, un lottatore contro le ingiustizie della società e i mali del mondo.
Sono piuttosto mansueto e cerco di sfuggire agli scontri diretti.
Aggiro gli ostacoli nella misura del possibile e impegno le mie energie, quali che siano, nelle cose che amo fare e nel modo in cui amo farle.
Benché abbia fatto l’insegnante di Filosofia nei Licei non sono e non voglio essere un guru che si propone di insegnare a vivere al prossimo. Preferisco pensarmi come uno che vuole imparare ogni giorno qualcosa che renda la qualità della vita migliore.
Mi piace immaginare la mia esistenza come un’avventura di ricerca e scoperta. E vorrei riuscire a vedere l’incanto della vita e farlo apparire con il disegno, la pittura e la parola. Mi piacerebbe che ciò che esce dalle mie mani fosse cibo per coloro che desiderano una vita operosa e costruttiva e che hanno il coraggio di perseguire la gioia di vivere.
3
La degenza in ospedale mi suggerisce qualche riflessione relativa alla parziale perdita di identità del paziente.
Il degente per un periodo abbastanza lungo (una settimana e più per esempio) vive in pigiama per tutto il tempo, è passivo rispetto ai pasti e ai loro orari, passivo nei confronti della somministrazione dei farmaci e degli esami (non prende quasi più decisioni autonome negli atti della sua vita), rimane in ambienti privi dei segni della sua professione e dei suoi interessi…
Me ne sono accorto su di me.
Tutto questo tende a far dimenticare chi si è, induce a una sorta di regressione, soprattutto se c’è dolore.
Capisco che l’essermi portato dei libri da leggere, il continuare in qualche modo a disegnare, a intrattenere la comunicazione sui social, l’essermi portato il taccuino per scrivere i pensieri, non è solo per passare il tempo: è per ricordarmi chi sono, per difendermi dalla pressione di un ambiente diverso sul senso della mia identità. Però il fattore più importante, per me, per la difesa della mia identità è il ricordo reiterato della mia storia d’artista e la presenza coltivata e ribadita del sogno che mi abita.
4
In ospedale, a Ivrea, si finisce per incontrare un sacco
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