Categoria : Eugenio Guarini
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Lettere da Nosolandia 5
(Nosos, in greco: Malattia. Da cui Nosolandia: la Terra della Malattia)
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E no, per la miseria! Troppe ore passate a letto. Troppo intrattenimento passivo. Ho bisogno di riprendere il controllo della mia operosità, benché ferita. Troppo letto m’impigrisce. Mi sto bevendo il cervello. Voglio ritrovare il pulsare acceso del desiderio. Ho bisogno di una scossetta elettrica.
Se penso alla mia vita d’artista, vedo venti anni di operosa fecondità, il cui motore è sempre stato il desiderio. Un desiderio irrequieto, scoperto e coltivato. Rivitalizzato ogni mattina, al sorgere del sole. Una certa follia scomposta che riusciva a partorire, dopo un buon pranzo e un bicchiere di vino, una qualche creatura piena d’ispirazione.
In questo modo ho messo al mondo circa 2.000 quadri.
È stata la celebrazione di una vitalità gioiosa.
Attraversato per la quasi totalità del tempo da una corrente creativa tonificante.
Ho creduto nei movimenti delle mie mani.
Ho messo da parte ogni paura di sbagliare, fidandomi del gesto e dell’intuito.
Sono diventato un cantore dell’improvvisazione, affidata a un esercizio quotidiano.
Ora il torpore della degenza si tinge di vergogna al ricordo di questa storia.
Ho bisogno di alzarmi presto e lavarmi la faccia con l’acqua fredda.
Ho bisogno di respirare l’aria fresca dell’aperto.
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Scrivo tanto proprio per questo: per darmi una scossetta, ritrovare quell’euforia frizzante che ti fa sentire davvero vivo. Ovviamente è una scrittura egoistica. È l’amor proprio che mi muove. E anche il ricordo di momenti migliori. Questa scrittura pretende, magari da folle, di realizzare il miracolo, anche se le sinapsi stentano a scatenarsi a causa di un’irritante sonnolenza. Le cose stanno cos. La malattia m’addormenta e io mi ribello.
Vorrei urlare la mia dichiarazione d’indipendenza.
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Questo tipo di scrittura non è affatto difficile, se si abbandona la preoccupazione di fare bella figura di fronte all’immagine della nostra professoressa delle Medie o delle Superiori. Scrivere la propria storia è qualcosa che è accessibile a tutti, indipendentemente dai nostri talenti letterari e persino dal grado di scolarizzazione. Noi “scriviamo” continuamente di noi stessi nel nostro cervello. E basterebbe trascrivere quello che di noi ci diciamo nella mente per redigere l’autobiografia. Se siamo fortunati, a rileggere quello che abbiamo scritto ci guadagniamo un po’ più di consapevolezza, di critica costruttiva. A me piacerebbe scoprire su di me qualcosa che ancora non so, non limitarmi a raccontare semplicemente quel che già credo di sapere.
In un periodo di smarrimento e di crisi, vorrei con questa scrittura contrastare l’inevitabile disorientamento, ritrovare la bussola per il mio viaggio esistenziale, vedere se riesco a tenere saldamente in mano il timone della barca, e decidere la direzione della navigazione. Voglio queste cose che mi fanno sentire vivo.
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A essere sincero, quando mi accingo a scrivere di me per me stesso, non ho alcun desiderio di ricostruire gli eventi con l’animo di uno storico oggettivo. Il Desiderio più forte che avverto, e che sposo immediatamente, è di amare il mio passato, di cogliere almeno parzialmente il filo rosso che ha animato tante situazioni diverse, anche contraddittorie, un percorso a zig-zag, apparentemente incoerente, spesso turbolento, saltellante, quasi sempre appassionato… Quel filo rosso che mi ha portato a essere ciò che sono ora: pulsante di desiderio di vita, pur negli arresti domiciliari che mi impone la malattia. Se scrivo del mio passato è per scrivere del mio presente, per animare il mio presente, per vedere nel passato le radici di un albero che vuole ancora spingere i suoi rami verso il cielo.
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La scrittura a mano ha il suo fascino
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