Categoria : Eugenio Guarini
Categoria : Eugenio Guarini
Il quadro: “Occhi che penetrano la distanza”, acrilico su tela, cm 100×100
1
Ci sarebbe anche questa idea: la relazione come danza. Parlo della socialità pubblica transitoria. Gli incontri casuali sui marciapiedi o al supermercato, per esempio.
Trasformare queste circostanze in tempo di danza. Scimmiottando i classici minuetti o balli collettivi di un tempo, con inchini, manfrine e segni di rispetto.
Arricchendo il solito “come va?”, danzare un minuto, con battute appropriate, inventate sul posto, ma a ritmo di danza (che uno s’immagina in testa).
2
Qualcosa di selvaggio rimane vivo dentro.
Io amo la cultura. La considero un po’ come coltura, il lavoro che si fa con i campi e le piante commestibili.
Ma solo quando potenzia e sviluppa il naturale, non quando l’inibisce o lo castra.
L’energia di fondo scaturisce sempre dall’area selvaggia di noi stessi. La sorgente non va inibita.
Nei momenti in cui le regole della cultura diventano soffocanti è quest’energia che rompe i recinti.
Per questo adoro le “erbacce” ai margini delle strade e nelle aree non coltivate. Ne sono la metafora e l’esempio. E la macchia mediterranea, così vigorosa e lussureggiante.
3
La mia formula (se si può dire così) è: inventa la tua storia di una vita piena e felice, entraci dentro fino al collo, ricavane energia e motivazioni inesauribili, e modella gli eventi e le cose in funzione di quella storia affinché quella storia diventi la tua realtà.
Oggi che l’artista ha perso l’aura attraversando la strada velocemente per non essere travolto sulle strisce pedonali, l’arte scopre meglio la sua vocazione più essenziale.
Che non è di alimentare la liturgia del vate, ma nella capacità di ricreare e rinnovare le energie vitali, di espanderle in nuove idee che sostengono la creazione del futuro, di ritrovare la verginità originaria scrollando di dosso tutte le croste di passati che non hanno più ragione di essere e che procurano solo attrito ai nostri gesti adolescenziali.
5
Nel cuore del bosco mi venne in mente qualcosa che avevo letto sulla dendrocronologia.
So, come sanno tutti, che gli anelli concentrici del tronco degli alberi indicano l’età della pianta. Mi pare che il primo a intuirlo fu Leonardo, il solito genio.
Ogni tanto leggo le cose di Tiziano Fratus che va alla ricerca degli alberi monumentali. La loro età è sbalorditiva. So di un Pinus Longaeva del Nevada, tagliato nel 1964 alla veneranda età di quasi 5.000 anni. E di un abete rosso scoperto in Svezia che dall’alto dei suoi 9.550 anni è il decano della vita sulla terra. È la stessa età della civiltà umana se si pensa che l’inizio dell’agricoltura viene fatta risalire a circa 10.000 anni fa.
Nel cuore del bosco mi guardo attorno immaginando che da qualche parte ci sia uno di questi vegliardi. Mi sorprende il loro silenzio sulle cose che hanno potuto osservare. Forse un giorno, con altre tecniche, potremo farli raccontare.
E penso a quanto corta appare al confronto la mia esistenza.
Bisogna che recuperi in intensità quello che perdo in longevità!
6
La degenza in ospedale mi suggerisce qualche riflessione relativa alla parziale perdita di identità del paziente.
Il degente per un periodo abbastanza lungo (una settimana e più per esempio) vive in pigiama per tutto il tempo, è passivo rispetto ai pasti e ai loro orari, passivo nei confronti della somministrazione dei farmaci e degli esami (non prende quasi più decisioni autonome negli atti della sua vita), rimane in ambienti privi dei segni della sua professione e dei suoi
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