Mentre ero a Roma a godere della mia esposizione al Crowne Plaza, mentre vivevo emozioni intense e piacevoli incontrando amici che avevano sfidato la pioggia torrenziale per venire a trovarmi, esplodeva lo scandalo di mafia e tangenti nella città a mettere sotto i riflettori il marcio che sembra dominare nella società.
Mia nipotina ha finito di leggere “Le città invisibili” di Italo Calvino e me lo passa.
Ritrovo il finale. Quando Kublai Kan dice a Marco Polo: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”.
La risposta di Marco Polo è quella che m’interessa.
Lui dice che abitiamo l’inferno tutti i giorni. E ci sono due modi per non soffrirne:
“Il primo… accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
l secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
La seconda alternativa è quella che mi aiuta.
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