Categoria : Eugenio Guarini
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Imparare a credere.
Certo, una tazza di caffè. La temperatura è quasi invernale. Per fortuna la caldaia funziona. Una buona tazza di caffè, che ha l’aroma dei pensieri che mi si accostano. Visitatori eccitanti…
Qual è il prezzo della libertà? – domandava un’amica.
Io pensavo: e che significa essere liberi?
Le parole hanno un fascino evocativo. E qui ce ne sono due toste: libertà, prezzo. Mi sembra che portino in due mondo diversi. E ci sto riflettendo.
Poi mi vengono in mente altri amici, che sono tormentati dal fatto che sono in una situazione lavorativa che proprio non piace, o che sono stati abbandonati da un amante, o che non ricevono dalla persona amata ciò che desiderano, o che non sanno qual è il loro sogno. E quelli che sono tormentati dal fatto che, nella crisi, si vedono cadere contratti di lavoro, o non vengono pagati…
E se penso a quelli che non hanno da mangiare, o un tetto sotto cui riposare; se penso a quelli che sono malati incurabilmente, allora devo frenarmi, perché la mia mente non riesce a reggere tutto questo mondo della sofferenza.
Io sono davanti a un caffè fumante, ho una sigaretta accesa, una casa con caldaia funzionante, ho appena cenato, scrivo al computer e la salute va piuttosto bene…
Mi sento libero, fortunato, perfino felice – se non ci penso troppo.
Mi rende felice il fatto di sapere che amo dipingere e lo posso fare, amo scrivere e lo posso fare, amo imparare musica e comporre e lo posso fare.
Mi rende felice il fatto che lo faccio.
Mi sento libero di farlo.
È un periodo in cui le bollette non incalzano più di quanto non entri in cassa dalla vendita dei quadri.
È un periodo in cui il cuore si sente affidato e sincero. È un periodo in cui mi sento allineato con le forze misteriose della vita.
Un caffè caldo, nero, fumante. Una sigaretta e questa tastiera del computer.
E quello che c’è dentro. Dentro le cose, dentro di me.
Mi meraviglio, perché tutto questo è Grazia.
Il centro di questa Grazia è in qualcosa che posso dire con le parole sentite, tempo fa, da un’amica: sono affidato.
In termini miei, direi che sono abbandonato alla guida di una forza misteriosa a cui ho consegnato il diritto di guidare il mio destino. Cerco di essere vigile, attento. Perché ho deciso che gli eventi – quelli esterni e quelli interiori – mi portano in ogni momento insegnamento, energia, mezzi per partorire quello che porto in grembo.
Paradossale, a dirlo con le parole: mi sento libero di essere quel che sono proprio perché, nell’intimo del mio cuore, ho scelto di obbedire e seguire.
E ho il senso del mistero. Non oserei definire il Dio con qualche formula che lo inchiodi alla prigione di un’essenza, di una dottrina. Non capisco quasi niente del senso grande della vita e non oso decidere se quello che avviene è bene o male. Non mi fido dei miei più elevati concetti di bene e di male. Pur desiderando il bene.
Ipotizzo di avere una vocazione personale, e un destino. Lo faccio perché quest’ipotesi mi piace. E immagino – intenzionalmente – che la mia vita sia un romanzo, un’avventura, il cui senso è proprio la realizzazione di questa vocazione personale. Lo penso quando tutto sembra andare bene. Lo penso anche quando le cose sembrano presentare difficoltà. I momenti di difficoltà sono momenti in cui ritornare alle domande di fondo: cosa sto facendo? Chi intendo essere? qual è il mio dono?
Non mi sembra,
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