Una cultura del risentimento
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Una cultura del risentimento
Si chiacchierava di questo: delle pene d’amore, della rabbia per la vita, e del successo. E si andava disegnando questo scenario: un sacco di persone che vivono quotidianamente nella rabbia. La rabbia come primo suggerimento della nostra educazione. Il risentimento, insomma. Le cose non vanno bene, non sono felice, qualcuno o qualcosa ne ha la colpa.
C’è una cultura della rabbia. Ha diverse sfaccettature. Il pianto, la lamentela, il cinismo, la battuta mordace, il vaffanculo salace… Irritazione costante. E c’è il lavoro capillare e quotidiano della ragione giustificativa. Ci sono sempre fatti che confermano la giustezza della rabbia. Perfino l’intelligenza della rabbia. Tutto quello che succede e anche quello che non succede dà ragione alla rabbia.
La rabbia si auto alimenta.
Questa cultura del risentimento, io l’ho scoperta leggendo Nietzsche, tanti anni fa. E’ lui che l’ha smascherata, che l’ha vista, almeno nella storia della mia formazione. Nietzsche mostra come questa cultura dettata dal risentimento produca coglioni. Alimenta la malattia. Spegne l’innocenza gioiosa della voglia di vivere. Riduce il presente a una passione inutile, una condanna a morte a cui ha congiurato tutto il passato. Un cul de sac.
Io dicevo di vedere nel risentimento per la vita una forma rovesciata di fede. Una fede bastarda. In parole povere: crede che Dio dovrebbe provvedere a una vita felice e, poiché non lo fa, se la prende con lui – anche quando professa una qualche forma di ateismo. Il risentimento mi appare quasi sempre una forma di risentimento contro Dio. Per questo, dico, presuppone una fede. Una sorta di fede in un Dio bastardo.
Uscire dalla cultura del risentimento è un passo decisivo. E non lo si può fare grazie alla stessa cultura del risentimento, non lo si può compiere appoggiandosi ad una sorta di argomentazione che difenda il bene dai molteplici motivi che lo contestano. Non c’è Teodicea che possa difendere Dio dalla colpa che gli getta addosso il male nel mondo. Tutti gli argomenti che difendono Dio dall’accusa di essere responsabile del male di vivere sono ridicoli. Semplicemente ridicoli e inconsistenti.
Questo sostenevo, nella nostra conversazione.
E agli scotimenti di testa dei miei interlocutori io sciorinavo la mia semplice intuizione: assumersi la responsabilità di una fede altra, scegliere la follia di una fede a priori nella bontà della vita.
Gesto assolutamente folle di fronte alla ragionevolezza dominante. Giustificato solo dal fatto che questo tipo di fede produce immediatamente gioia. Ed è qualcosa del genere che io affermo quando parlo di credere nei propri sogni. Vuol dire credere che i propri sogni sono veri, e che sono destinati a realizzarsi. Sottrarre la verità dei propri sogni all’attacco critico di qualsiasi presunto dato di fatto.
Ed è così che si conquista quella che Nietzsche chiamava la seconda innocenza.
Ed è così che il presente, cioè il qui e ora dove si svolge il gioco della vita, diventa il possibile. E la porta attraverso cui anche il passato si trasforma, e veniamo liberati dal suo peso. E dove il futuro non è più limitato dalle congetture ragionevoli che ne stabiliscono i confini.
Ciò che prima era impossibile ora diventa possibile.
Il successo, in questa prospettiva, è ciò che succede nell’ambito di una alleanza tra te e la vita, sostenuta da questa nuova innocenza. Non è la conquista di un Tantalo o di un Sisifo. Non è l’esito di una lotta dove hai dimostrato la tua forza. Non esige uomini e donne eccezionali. È alla portata di uomini e donne comuni che hanno imparato a non disperdere le proprie energie nella lotta e nel risentimento. E che iniettano quotidianamente, con facilità e semplicità, il loro operare gioioso nel flusso della vita.
Sciocchi creduloni che hanno il merito di resistere all’incanto della cultura del risentimento e che sentono il buon sapore di una cultura dell’alleanza.
Il quadro si chiama Ragazza con cappello.
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