Natale è uscire fuori dalla tazza
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Uscire fuori dalla tazza.
Anche voi, come me, quando siete nati, siete usciti fuori dalla pancia di una donna. Se essere concepiti è l’incontro degli opposti (lo pensate che gli opposti si amano? E vogliono fondersi insieme?), nascere è uscire fuori.
Io sono stato tirato fuori col forcipe – certamente il ferro deve aver toccato qualcosa nel cervello! – Ma io immagino che volevo restare dentro: dentro era caldo e fuori faceva freddo. E non bastavano le contrazioni di mia madre ad espellermi. C’è voluto il forcipe.
Quella mia nascita la vedo ora come la cifra del mio destino.
Anche adesso, quando devo partire da casa per mostre o incontri, ne soffro. Mi dà pena. E quando sono fuori, non vedo l’ora di ritornare a casa.
Un destino è un destino. E chi ne sa qualcosa?
Io so che è sempre un forcipe che mi tira fuori.
E lo vivo come il mio Natale.
In un certo senso, sono diventato esperto in rinascita.
Sono rinato tante di quelle volte che quando ai miei amici bambini racconto che sono un hailander loro ci credono.
Beh, non voglio crogiolarmi troppo in queste considerazioni autocompiaciute. Voglio dire il concetto: che mi costa molta fatica e pena, ma uscire fuori, nascere, alla fine mi piace. È il tipo di miracolo che più mi esalta, nella mia storia personale. E ho capito che è il mio desiderio segreto. È per questo che amo la vita. Ogni rinascita è come un allargamento degli spazi di vita – della consapevolezza di nuovi spazi di vita. È uscir fuori da una tazza.
Forse è per questo che quando arriva il dolore – che è sempre dolore per una perdita – ho cominciato a considerarlo come il dolore del parto. Lo vedo come l’annuncio di una nuova nascita.
Se dipendesse da me, non smetterei mai di percorrere questo ciclo di morte e rinascita. Amo la vita fino al punto da desiderare che sia eterna – malgrado quello che sembra: che si muore.
E nel fondo del mio desiderio c’è questa sorta di sfida: che malgrado l’apparenza, la vita prevalga sulla morte – non in senso generico. In senso personale.
L’ultima rinascita significativa – al di là di quella di ogni mattina – che io ricordi è quando nel 97 ho deciso di fare l’artista, uscendo dalla scuola e mettendomi in proprio. Avevo 57 anni e molti mi dicevano che quella era l’età di acquietare l’animo e andare in pensione. Roba da sparargli addosso!
Se ci sono due tendenze irrefrenabili nella nostra epoca sono queste: la prima è le donne. Le donne sono cresciute e la cultura al femminile è una specie di bomba atomica. La seconda è quella degli ultrasessantenni: sono destinati a diventare la maggioranza del mondo di domani. Sulle donne non dico, perché già ne parlo tanto. Ma sugli ultrasessantenni, voi credete che si rassegnino a rimanere in un parco giochi? Noi viviamo quarant’anni in più dei nostri predecessori agli inizi del ‘900. Quarant’anni è un’altra vita. E noi vogliamo viverla da protagonisti. Le aziende ci rifiutano perché, dicono, siamo troppo vecchi. Pazzi! Che non hanno capito non solo che noi siamo la società e il mercato – infatti sono ossessionati dall’idea della giovinezza – ma che abbiamo addosso, che abbiamo dentro, tanta di quell’esperienza da far esplodere il mondo e le sue anguste strutture. Perché ne siamo liberi.
A 57 anni, quando cominciavo la mia vita d’artista, coloro con cui mi identificavo erano i trentenni in cerca di fortuna e di autorealizzazione. I miei sogni erano esattamente come i loro: vivere facendo quello che ami e nel modo in cui ami farlo, salvando l’anima dal lavoro dipendente.
Erano i creativi, alla ricerca di quelle strade impossibili per la ragionevolezza che avrebbero portato alla realizzazione dei propri sogni.
Sono uscito fuori della tazza, come la bambina meravigliosa dell’immagine allegata.
Oggi ho fatto il mio millesimo quadro. È già nella galleria del mio sito. Questo mi dà il tema della prossima newsletter. Ma, adesso, preferisco sostare sul tema del nascere o del rinascere.
Se stai provando dolore – perché lui ti ha lasciato, o perché la tazza che ti contiene è troppo stretta – pensa che si tratti dei dolori di un parto. E punta verso l’uscita – col forcipe o senza. Perché la bellezza della vita sta proprio in questo.
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